Il pacco

Oggi è arrivato un pacco:
Il rumore di un furgone, il campanello, mi sono affacciato appena — per vedere senza essere visto — e
nell'erba di qua dal cancello c'era una busta quadrata.
Il corriere si chiama Carlos, è colombiano e ogni volta parliamo di Egan Bernal, che è colombiano anche
lui e a 22 anni ha già vinto il Tour de France e chissà quanti ne vincerà ancora.
Stamani però no, solo il campanello; il pacco in fondo al giardino e addio.
Meglio così, non bisogna darsi confidenza. E poi di cosa potevamo parlare? Il Tour è saltato, è saltato
il Giro d'Italia e pure il Giro delle Fiandre, che non l'aveva fermato nemmeno la Seconda guerra mondiale:
i nazisti davano fuoco al Belgio ma loro lo stesso a pedalare per 250 chilometri nel fango e sui sassi.
Quest'anno invece no.
Nessuno corre, nessuno li aspetta lungo la strada per urlargli bravi. Anzi, se adesso incontri qualcuno
non gli dici nulla, lo guardi male e ti tappi naso e bocca.
Infatti Carlos ha buttato la busta nel giardino e via, e intanto ha pensato ma in un momento così, c'era
bisogno di venire qua per questa cazzata? Lo so, perché è la stessa cosa che penso io. Ma la colpa non è
mia né sua.
E' questo pacco, che arriva da un altro mondo.
Conosco uno di Lodi che compra e vende dischi, a gennaio gli avevo mandato una lista di titoli difficili
che cercavo, lui man mano che li trovava me li spediva.
Ma era gennaio, poi è successa questa cosa e tutto è cambiato, così tanto che un pacco desiderato due mesi
fa arriva oggi assurdo e minaccioso, come una cosa da un altro mondo.
E come nel film che si intitola così, dove un gruppo di ricercatori al Polo Nord si imbatte nei resti di
un'astronave aliena, io mi faccio forza e approccio la busta con prudenza e paura.
Mascherina, guanti, e un arnese speciale che mi serve per aprirla. Perché la confezione esterna è il peggio:
in una realtà dove bisogna stare fermi e non avere contatti con niente e nessuno, un pacco viaggia per
centinaia e centinaia di chilometri in mezzo a mille altri, toccato da così tante mani che a pensarci mi
viene la nausea.
Per questo non lo apro con le forbici ma con un utensile antico, un bastone lungo tre metri che ha in cima
una specie di cesoia, comandata da uno spago che arriva fino alla mia mano libera, da quest'altra parte del
bastone. Noi in Versilia lo chiamiamo «ladra dai fichi», e una volta serviva appunto a cogliere i fichi dai
rami più alti, quando era pericoloso salire sull'albero perché non ti reggeva oppure perché non era roba
tua, e infatti chiamavi l'attrezzo «ladra» ma chi rubava i fichi eri tu.
Adesso non li ruba più nessuno, hanno buttato giù gli alberi per costruire centri commerciali smisurati,
dove puoi comprare frutta esotica arrivata dall'altra parte del pianeta, che costa un sacco e ha passato metà
della sua vita in frigorifero, ma certe volte è dolce e nutriente quasi quanto i fichi che scoppiavano a
quintali sugli alberi qua intorno.
È questa feroce idiozia, questo sfascio demenziale che secondo tanta gente in giacca e cravatta deve
ripartire, e subito, e più forte di prima. La stessa gente che ci ha portato in fondo a questo buco adesso
ci indica la via per uscirne, e la loro via è scavare ancor più giù nel fango. Devono essere proprio stupidi,
tano stupidi, i più stupidi del mondo. Anzi, no, i più stupidi siamo noi, che gli andiamo dietro.
E comunque negli ulti anni «la ladra dai fichi» non serviva più a nulla, ma ecco che oggi torna clamorosamente
utile: mi permette e di aprire la busta là al cancello, tenendomi a distanza di sicurezza. Perché i bacilli
restano sulle cose. Sulla carta, la plastica, il metallo, su tutto. Stanno lì pronti in attesa che li tocchi,
si aggrappano alle dita e piano piano salgono in cerca di uno spiraglio, ti entrano dentro e addio.
Ci penso adesso, a quanto può essere contaminato questo pacchetto, e mi diventa ancor più difficile respirare
nello stretto della mascherina.
Che io lo dico, è tremendo ma lo dico lo stesso: la prima volta che ho visto uno con la mascherina, gli ho
riso in faccia.
Erano gli ultimi giorni di febbraio, quindi sul confine tra il vecchio mondo e questo. Io però venivo da una
settimana piena di sole in fondo all'Italia. Lecce, Castro, Santa Maria di Leuca, posti che in un'altra vita
sono stati miei, perché ogni volta che ci torno mi sento a casa.
Senza giornali e tv, e senza parlare di quello che stava per diventare l'unico argomento del pianeta. Infatti
era un pianeta diverso, dove al mattino incontravo scolaresche intere e la sera tante persone riunite a parlare
di libri, e mani strette, abbracci forti e baci e tutta quella calorosa normalità che a sentirla oggi suona
sensata come un tuffo di testa nell'acido muriatico.
E poi il lungo viaggio in treno verso casa. Che ci vuole mezza giornata, e in aereo con lo stesso tempo arrivi
in Giappone, lo so, ma io l'aereo non lo prendo. Perché volare mi inquieta, e perché gli aerei inquinano
tantissimo. Però quando me lo chiedono, rivelo solo la prima ragione, così mi compatiscono ma non troppo.
Insomma, stavo in treno ormai da qualche ora quando sale un tipo che si piazza nei quattro posti liberi di là
dal corridoio. Mi sembra assai più vecchio di me, quindi avrà la mia età. Un trolley che non trascina ma tiene
sollevato sotto un braccio, nell'altra mano un sacchetto di plastica pieno di qualcosa, e sulla faccia appunto
questa assurda mascherina bianca.
Tira fuori dal trolley un enorme sacco nero della spazzatura, lo piazza a coprire il sedile più lontano da me
e ci si siede. Dal sacchetto bianco prende guanti di gomma e una bottiglia di roba che versa su un po' di
cotone, e l'odore di alcol riempie il vagone. Ci pulisce i braccioli del suo posto, il pezzetto di finestrino
lì accanto e il tavolinetto davanti a lui, poi toglie i guanti e dal sacchetto prende un incarto di stagnola
a forma di siluro. Lo apre con due dita e spunta un panino, non vedo cosa c'è dentro e non posso nemmeno
sentirlo dal profumo, perché l'aria è piena di alcol.
Il mio amico non vorrebbe mangiarlo qua in treno, chiaro, ma è l'ora di cena e il viaggio è lungo e lui muore
di fame. Allora si versa altro disinfettante sulle mani, le strofina, solleva il panino avvicinandolo agli
occhi che già lo pregustano, poi finalmente se lo infila in bocca per il primo erotico morso.
Ma appunto il mio amico ha la mascherina, se l'è scordata ma ce l'ha, e invece della bocca il panino picchia
contro il tessuto bianco, piegandolo in dentro.
Lui sussulta, scatta indietro spaventato, come uno che aspettava una carezza e si becca una bastonata.
Spalanca gli occhi, si guarda intorno sperso, e trova me che lo fisso. E in quel momento, davanti al suo
sguardo terrorizzato sopra la mascherina ammaccata e piena di briciole, io cosa potevo fare? Sono scoppiato a
ridere.
È orribile ma è così, e ho continuato pure un bel po'.
Infatti nel vecchio mondo sarebbero partire parole brutte, poi insulti da seduti, poi minacce in piedi, fino
magari alle mani addosso. Ma adesso no, il mio amico è già schifato a respirare la mia stessa aria, figuriamoci
se mi tocca. Così ha puntato di nuovo il suo panino, si è liberato la bocca, e con la mascherina che gli
ballava su una tempia ha cominciato a masticare amaro.
E a me dispiace tanto aver riso di lui, ci ripenso ogni giorno e vorrei chiedergli scusa, però non è stata
colpa mia: io ero come la gente degli anni cinquanta in Ritorno al futuro, che Marty McFly viene appunto dal
futuro e indossa un piumino, ma loro non ne hanno mai visto uno e pensano che Marty vada in giro con un
giubbotto di salvataggio, e ridono. Perché loro vivono in un mondo diverso, lontanissimo nel passato.
E io uguale, due mesi fa.
Stamani invece eccomi qui, mascherina e guanti di gomma, e un attrezzo lungo tre metri per tentare di
aprire un pacchetto.
La vita è così, la vita è la mia scrittrice preferita. Quel che fa succedere non lo puoi sapere mai,
puoi solo metterti lì e lasciarti prendere dalla storia.