L’ARRIVO AD AUSCHWITZ

[Primo Levi, ebreo torinese, fu arrestato dalla Milizia fascista il 13 dicembre del 1943. Aveva
ventiquattro anni , da poco si era laureato in chimica e si trovava in montagna con un gruppo di
amici, insieme ai quali aveva costituito una banda partigiana.
Dopo l’arresto, in quanto ebreo, venne inviato a Fossoli, un campo di transito vicino a Carpi in
provincia di Modena. Lì si trovavano già centocinquanta ebrei italiani, che in seguito raggiunsero il
numero di oltre seicento. Dopo una breve ispezione del campo, da parte di un piccolo reparto di SS,
venne decisa la deportazione di tutti gli ebrei: uomini, donne, vecchi, bambini, sani e malati.
Il 22 febbraio del 1944, partì il convoglio diretto ad Auschwitz: “un nome privo di significato,
allora e per noi; ma doveva pur corrispondere a un luogo di questa terra.”
Il viaggio fu lungo e terribile, poi alla fine ... “Alla luce misera dell’ultima candela, spento il
ritmo delle rotaie, spento ogni suono umano, attendemmo che qualcosa avvenisse.”]

IL VIAGGIO
...
Venne a un tratto lo scioglimento. La portiera fu aperta con fragore, il buio echeggiò di ordini
stranieri, e di quei barbarici latrati dei tedeschi quando comandano, che sembrano dar vento a una
rabbia vecchia di secoli. Ci apparve una vasta banchina illuminata da riflettori. Poco oltre, una fila
di autocarri. Poi tutto tacque di nuovo. Qualcuno tradusse: bisognava scendere coi bagagli, e
depositare questi lungo il treno. In un momento la banchina fu brulicante di ombre: ma avevamo paura
di rompere quel silenzio, tutti si affaccendavano intorno ai bagagli, si cercavano, si chiamavano
l’un l’altro, ma timidamente, a mezza voce.
Una decina di SS stavano in disparte, l’aria indifferente, piantati a gambe larghe. A un certo
momento, penetrarono fra di noi, e, con voce sommessa, con visi di pietra, presero a interrogarci
rapidamente, uno per uno, in cattivo italiano. Non interrogavano tutti, solo qualcuno. "Quanti anni?
Sano o malato?" e in base alla risposta ci indicavano due diverse direzioni.
Tutto era silenzioso come in un acquario, e come in certe scene di sogni. Ci saremmo attesi qualcosa
di più apocalittico: sembravano semplici agenti d’ordine. Era sconcertante e disarmante. Qualcuno osò
chiedere dei bagagli: risposero "bagagli dopo"; qualche altro non voleva lasciare la moglie: dissero
"dopo di nuovo insieme"; molte madri non volevano separarsi dai figli: dissero "bene bene, stare con
figlio". Sempre con la pacata sicurezza di chi non fa che il suo ufficio di ogni giorno; ma Renzo
indugiò un istante di troppo a salutare Francesca, che era la sua fidanzata, e allora con un solo
colpo in pieno viso lo stesero a terra; era il loro ufficio di ogni giorno.
In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in un gruppo. Quello che accadde
degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire allora né dopo: la notte
li inghiottì, puramente e semplicemente. Oggi però sappiamo che in quella scelta rapida e sommaria, di
ognuno di noi era stato giudicato se potesse o no lavorare utilmente per il Reich; sappiamo che nei
campi rispettivamente di Buna-Monowitz e Birkenau, non entrarono, del nostro convoglio, che novantasei
uomini e ventinove donne, e che di tutti gli altri, in numero di più di cinquecento, non uno era vivo
due giorni più tardi. Sappiamo anche, che non sempre questo pur tenue principio di discriminazione in
abili e inabili fu seguito, e che successivamente fu adottato spesso il sistema più semplice di aprire
entrambe le portiere dei vagoni, senza avvertimenti né istruzioni ai nuovi arrivati. Entravano in
campo quelli che il caso faceva scendere da un lato del convoglio; andavano in gas gli altri.
Così morì Emilia, che aveva tre anni, poiché ai tedeschi appariva palese la necessità storica di
mettere a morte i bambini degli ebrei. Emilia, figlia dell’ingegner Aldo Levi di Milano, che era una
bambina curiosa, ambiziosa, allegra e intelligente; alla quale, durante il viaggio nel vagone gremito,
il padre e la madre erano riusciti a fare il bagno in un mastello di zinco, in acqua tiepida che il
degenere macchinista tedesco aveva acconsentito a spillare dalla locomotiva che ci trascinava tutti
alla morte.
Scomparvero così, in un istante, a tradimento, le nostre donne, i nostri genitori, i nostri figli.
Quasi nessuno ebbe modo di salutarli. Li vedemmo un po’ di tempo come una massa oscura all’altra
estremità della banchina, poi non vedemmo più nulla.
Emersero invece nella luce dei fanali due drappelli di strani individui. Camminavano inquadrati, per
tre, con un curioso passo impacciato, il capo spenzolato in avanti e le braccia rigide. In capo
avevano un buffo berrettino, ed erano vestiti di una lunga palandrana a righe, che anche di notte e di
lontano si indovinava sudicia e stracciata. Descrissero un ampio cerchio attorno a noi, in modo da non
avvicinarci, e, in silenzio, si diedero ad armeggiare coi nostri bagagli, e a salire e scendere dai
vagoni vuoti.
Noi ci guardavamo senza parola. Tutto era incomprensibile e folle, ma una cosa avevamo capito.
Questa era la metamorfosi che ci attendeva. Domani anche noi saremmo diventati così.

[I prigionieri subiscono gli umilianti trattamenti che precedevano l’ingresso nel campo]

SUL FONDO
...
Quando abbiamo finito, ciascuno è rimasto nel suo angolo, non abbiamo osato levare gli occhi l’uno
sull’altro. Non c’è ove specchiarsi, ma il nostro aspetto ci sta dinanzi, riflesso in cento visi
lividi, in cento pupazzi miserabili e sordidi. Eccoci trasformati nei fantasmi intravisti ieri sera.
Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa
offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è
rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non
c’è, e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se
parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il
nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al
nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.
Noi sappiamo che in questo difficilmente saremo compresi ed è bene che così sia. Ma consideri
ognuno, quanto valore, quanto significato è racchiuso anche nelle più piccole nostre abitudini
quotidiane, nei cento oggetti nostri che il più umile mendicante possiede: un fazzoletto, una vecchia
lettera, la fotografia di una persona cara. Queste cose sono parte di noi, quasi come membra del
nostro corpo; né è pensabile di venirne privati, nel nostro mondo, ché subito ne ritroveremmo altri a
sostituire i vecchi, altri oggetti che sono nostri in quanto custodi e suscitatori di memorie nostre.
Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue
abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto,
ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi
ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita
o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato in base ad un puro
giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine "Campo di annientamento"
e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo.


Primo Levi
Da "Se questo è un uomo", Einaudi, Torino 1989.